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L'OSTINAZIONE DELLA SPERANZA

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Sempre di più sentiamo parlare di questa realtà, un mondo che sentiamo esterno e che alcuno tempo ci rifiutiamo di conoscere: il carcere.

Per questo la redazione di Increscendo ha deciso di intervistare il cappellano del carcere di Cremona Don Roberto Musa, che si è aperto con noi permettendoci di vedere aspetti poco noti in merito al sistema detentivo. 

 

Leonardo

Cosa l’ha spinta a voler essere Cappellano di un istituto penitenziario? 

 

L’ha deciso il Vescovo. Noi non scegliamo cosa fare, mettiamo le nostre vite a disposizione della chiesa. Il Vescovo sceglie incarichi sulla base della conoscenza delle persone e del servizio da fare. Non è stata una mia scelta personale, anche se sono contento di ciò che faccio. A distanza di anni direi ancora di sì. Ero vicario di Caravaggio e sono tornato nella mia città. Ho accettato subito, con gioia.

 

E quanto questa sua esperienza ha trasformato la sua vita?

 

Entrare in carcere cambia molto. Non si rimane indifferenti. È una realtà complessa che ti mette in contatto con persone che stanno affrontando un presente complesso e un passato evidentemente doloroso, fatto di sofferenza, violenza, paura. Quindi è una realtà che ti fa toccare con mano la fragilità delle persone, degli esseri umani, quanto gli uomini riescono a fare di male ma anche la bellissima capacità di porre rimedio al male, piccoli miracoli. Tutti portano le conseguenze di quanto commesso, ma in tanti hanno la voglia di rinascere, di ricominciare.

 

Ricorda com’è stato il suo primo giorno in carcere?

 

Certo. Un trauma. Si entra in un mondo davvero difficile, dove si ha a che fare con una realtà in cui, per muoversi in autonomia, occorre conoscere bene persone e regole di quella specifica realtà. Le mura alte che dividono il carcere dal mondo esterno sono il segno tangibile che quello è un mondo a parte. Il carcere di Cremona è abbastanza grande oggi, allora era la metà. Sono anche cappellano della Polizia del carcere. Il carcere è una parrocchia particolare in cui occorre fare attenzione a sensibilità amplificate, ad emozioni fortissime, viscerali, nel bene e nel male.

 

Daryna

Ha mai avuto paura?

 

No. Non sono un eroe, ma non ho mai temuto. Abbiamo sempre vissuto tutto insieme, anche le rivolte.

 

Alessandro

Il dopo, per alcuni, può essere un altro carcere?

 

L’art.27 punta alla riabilitazione, ma non è facile. Dietro c’è la libertà della persona, e quindi la sua capacità di fare scelte. Alcuni vivono gli anni della detenzione subendo e lasciando scorrere il tempo, senza mettere in atto nulla. Il rientro per queste persone sarà alla ricerca di quei circuiti che poi ti riportano in cella. Ci sono poi persone che accettano le offerte rieducative. Con me lavorano oltre 200 poliziotti, e tante figure che lavorano nell’ambito educativo. Su 600 detenuti, ad esempio, 110 fanno corsi di pre-alfabetizzazione, altri stanno cercando di ottenere la licenza media. Altri non fanno percorsi scolastici ma di formazione lavorativa. Attività laboratoriali, formative: apicoltura,falegnameria, orto, musicoterapia, arteterapia. Attraverso la musica e l’arte, esprimere aspirazioni e paure. Abbiamo anche corsi di teatro con rappresentazioni. Teatro, palestra, chiesa sono spazi

comuni che sono il pilastro della vita carceraria. Tanti detenuti sono papà. Nelle rappresentazioni abbiamo coinvolto anche i figli, a volte piccoli, nella rappresentazione.

 

Monica

Quali sono le principali sfide che affronta quotidianamente nel supportare i detenuti?

 

Ogni giornata è diversa dall’altra. Ciò che faccio io principalmente è ascoltare e parlare. Al posto di sfida userei la parola opportunità. Devo cercare di cogliere ogni occasione per aiutare l’altro a compiere dei passi in avanti. A volte si inizia una giornata che poi vira verso altre declinazioni, a volte impreviste. La sfida è verso di me. Cercare di essere sempre all’altezza della situazione. Gestire le quotidiane situazioni di emergenza, ponendosi nella migliore positività d’animo possibile. Contenere l’evento e cercare di farlo diventare un punto di partenza. Colloqui con parenti andati male, incomprensioni con un agente, notizie dalla magistratura.

 

Alessandro

Ha mai pensato che un detenuto fosse irrecuperabile, e che quindi l’attività rieducativa del

carcere di cui anche lei ne è rappresentante non possa funzionare? Se sì cosa ha fatto?

 

Se pensassi questo non sarei un prete. Per tutti c’è la possibilità di ricominciare. L’ostacolo che trovo e che è uno dei più grandi che si hanno in carcere è non la mancanza di volontà ma la mancanza di possibilità. Ad esempio, abbiamo tanti casi psichiatrici indotti dall’abuso di sostanze: alcol e stupefacenti. Purtroppo, al di là di quel che si racconta in giro, l’abuso di droghe, anche leggere, compromette pesantemente reazioni, comportamenti. L’assuefazione a volte non consente un ritorno. Mantenere un equilibrio e la gestione delle emozioni può essere davvero impossibile se non attraverso farmaci. Si arriva a mettere in pericolo la vita dei familiari pur di esaudire i propri bisogni. Purtroppo, anche i modelli, come i cantanti trap, inneggiano ad un uso di sostanze, violenza, eccessi. Questo fa paura, anche per la risonanza che questi modelli possono avere su menti più fragili. In carcere a Cremona, su 600 detenuti, 170 in codice rosso, condannati per violenza su donne o bambini. Sono in sezioni separate, per evitare la violenza degli altri

detenuti. Anche di condannati per reati informatici: siti pedopornografici, truffe, estorsioni. Un altro reato comune è il revenge porn, purtroppo in ascesa.

 

Gabriele

Qualcuno ha mai cercato di scappare?

 

Sì, è accaduto, ma nessuno c’è mai riuscito. Tentativi abbastanza improbabili, ingenui. Li hanno presi subito.

 

Alessandro

Ci sono stati suicidi in carcere?

 

L’ultimo, due mesi fa, l’unico in un anno. Per il resto, svariati tentativi. Nel contesto italiano,

purtroppo, ben 82 in un anno. Spesso, a portare al tentativo non è il senso di colpa ma la

mancanza di prospettiva una volta fuori. Per alcuni, uscire è una tragedia. Senza casa, senza famiglia, senza lavoro. Alcuni ragazzi giovani ci hanno detto che il carcere ha salvato loro la vita.

 

Un esempio concreto?

 

Un ragazzo, 19 anni, in carcere per un furto generico, viene a colloquio. Io guardo la banca dati e capisco la sua situazione, non grave. Mi chiedo cosa ci faccia qui. Lui mi dice che avrebbe potuto scontare la pena ai domiciliari, e lui mi dice che non aveva una casa. Pagava 500 euro per dormire su un materasso in un camper parcheggiato a Lambrate. In quanto non residente in Italia e non italiano, non poteva avere un contratto di lavoro. Senza giustificare il male, la disperazione porta a scelte sbagliate ma comprensibili.

 

Ginevra

 

Come si sente quando un detenuto esce dal carcere? Teme per lui o a prevalere è la felicità

per il percorso compiuto?

 

Il fatto di uscire non determina un successo. Ti racconto una storia. Un giovane, qualche tempo fa, esce dal carcere mentre io termino il servizio del giorno. Lui ha con sé un sacco dell’immondizia con le sue cose. Gli do un passaggio per la stazione, per prendere il treno per Milano. Non ha detto niente alla mamma, vuole farle una sorpresa. Mi chiede qualche soldo per arrivare con un pensiero per lei. Tre giorni dopo, mentre sto recandomi al lavoro come ogni giorno, lo trovo a dormire sulla panchina di fronte al carcere. Gli chiedo cosa ci faccia qui, e lui chiede se può essere ripreso. La sua mamma, mentre lui era detenuto, ha costruito una relazione con una persona che lui, qualche sera prima, si è ritrovato sulla porta di casa sua. L’uomo, senza farlo entrare, ha messo la madre del ragazzo di fronte ad una scelta: o lui o il figlio. E lei ha scelto lui…

 

Claudio

 

Essere prete, che ruolo ha, per lei e per i detenuti?

 

Io la vedo come un’opportunità meravigliosa. Un dono, essere lì come prete. Una grazia che ho ricevuto. Paradossalmente, noi siamo funzionari come gli altri, dipendenti dal ministero della giustizia come gli altri. Ma né i colleghi di lavoro né i detenuti ci vedono così. Siamo i familiari che entrano in casa. L’amico di cui ti puoi fidare. Ormai le carceri sono multietniche e quindi multireligiose. Molti più musulmani che cattolici. Si entra in confidenza. Al di là di alcuni radicalizzati, l’aspetto dell’identità religiosa paradossalmente aiuta a fare da collante. Siamo sarti di relazione.

 

Alessandro

Ci può raccontare, in anonimato, la storia più commovente, più indelebile, che abbia mai

raccolto da un detenuto?

 

Nessuna in particolare. Tante persone, ognuna ti segna. Tu non sei lì a registrare, ma a

condividere. Cerchi di ricucire con le famiglie, quando possibile. Ci sono, certo, situazioni di dolore talmente grande che lasciano un segno forte, particolare, ma tutte meritano un’attenzione, un posto nel cuore. Vite che tu affianchi e in cui tu entri, portandole con te.

 

Leonardo

Parliamo di una sua grande iniziativa, la Panetteria Solidale, fondata grazie alla sua

Cooperativa “Fratelli tutti”, com'è nata l’idea e quali sono stati i principali ostacoli che avete dovuto superare per realizzarla?

​

Gli ostacoli sono i soldi. Non c’è solo una panetteria pasticceria, e non ci sono ragazzi del carcere ma anche ragazzi portatori di disabilità. Volevamo dare speranza a chi viene tenuto lontano viene scartato. Chi commette reati o chi è portatore di difficoltà va considerato come risorsa. Abbiamo aperto un caffè letterario e una libreria cattolica e, a breve, dovremmo aprire anche un ristorante.

 

Quale atteggiamento manifestano i detenuti nei confronti delle persone disabili con le quali

collaborano nei lavori socialmente utili?

 

Siamo persone. Collaborazione è la parola che connette tutti, fa da lievito. Quando abbiamo

inaugurata la libreria, una giornalista, una vostra collega, ci ha chiesto come possiamo chiamarli. Ho risposto di chiamarli lavoratori. Non abbiamo l’ambizione di riuscire a fare dell’enciclica di Papa Francesco una verità. mettere segni concreti, semi di speranza. In cui non ci siano gli scartati e gli esclusi. Ci siamo messi in un gruppo di amici e abbiamo provato a dare concretezza alle parole.

 

Alessandro

A questo proposito, Papa Francesco ha appena aperto la seconda Porta Santa di questo

Giubileo nella casa circondariale di Rebibbia: cosa ne pensa di questa scelta del

Pontefice? 

 

Ribalto la domanda e la faccio a te. A te cosa ha detto questa scelta? Pellegrini di speranza, è il titolo. Quando ero vicario nella parrocchia di S. Pietro, a Cremona, avevamo scritto un testo di uno spettacolo sulla Via Crucis. Ad un certo punto, tra le varie scene è uscita, totalmente inventata, un dialogo tra Maria e la madre di Giuda. Maria non dice niente. Ascolta e basta. È la madre di un suicida e di un istigatore di omicidio a parlare. Condividiamo lo stesso dolore. Ma il tuo sarà guardato con amore da tutti, il mio con disprezzo. Quando si incontra la sofferenza di un bambino, la malattia, viene spontaneo avere misericordia, non indifferenza. Per chi vive in carcere, la cosa non è così, non si sente destinatario di comprensione. Ti manca quella scintilla che potrebbe darti la possibilità di rinascere. Pensi di un avere più diritto di sperare. 

 

Ruggero

Molti brani trap, popolari tra noi giovani, descrivono il carcere come una realtà negativa e che gli stessi cantanti che l’hanno passata non augururegrebo nemmeno al loro peggior nemico, cosa ne pensa?

 

La realtà del carcere è davvero brutta. Io non posso estirpare il dolore dalla vita delle persone. Ma insieme ad altre persone lavoro per cercare di convertire il dolore in speranza, per fare in modo che possa diventare un'opportunità. Non posso toglierti quel che stai soffrendo, ma posso dare un aiuto per capire come è possibile vivere appieno la vita anche già a partire dal carcere.

 

Grazie di cuore per la sua disponibilità e apertura!

La redazione

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