NELLA TANA DEL LUPO

Andare nella tana del lupo, cercare di entrarci, sapendo il rischio che si corre: diventarne preda.
Non è facile accedervi, che da fuori pare rozzo e primordiale, ma che da dentro si palesa come una macchina organizzata e meticolosamente strutturata su agghiaccianti regole: divieti però, non diritti.
Al suo interno ci sono tanti piccoli animaletti: sembrano formichine, anche se a spiccare c’è un grande e astuto lupo che usa le formiche come scala per raggiungere quelle prede più interessanti e che non conoscono le regole di sopravvivenza del covo: primo divieto, non si infrangono le regole se non si vuole diventare pasto del lupo.
Lo so, inizialmente questo primo ordinamento sembra positivo, alla fine è giusto imporre il limite del rispettare le regole: il problema sorge quando sono le leggi a non permettere agli umani di essere persone, alle formiche di essere formiche ma conferiscono solo il potere al lupo di fare quello che vuole.
Questa è la prima falsa libertà che ogni uomo conosce, sperimenta, ma non riconosce: fare quello che si vuole non è avere un’indipendenza sana.
Una tana è una casa: almeno così sembra ma, quando la docile culla della propaganda della falsa giustizia addolcita va in scontro con la vera realtà di una dittatura, vedere una calda casa è impossibile; infatti il compito di tutti coloro che vogliono entrare nella tana è, d’altronde, mimetizzarsi tra le formiche per diventare megafoni della “vita” fondata su ripercussioni delle leggi e della cattiveria egoistica del lupo.
Questa metafora è il più affine esempio che si possa formulare per parlare di teatri geopolitici distopici e dove la democrazia sembra un lontano ricordo.
L’esempio per eccellenza che stiamo leggendo in questi giorni, e che parla di una persona che ha cercato di documentare la vita di tante formiche schiacciate dal lupo, è quello della giornalista Cecilia Sala.
La donna infatti è stata imprigionata a Teheran il 19 dicembre del 2024 dalle forze della polizia morale iraniana, dove è stata detenuta fino alla data 8 gennaio 2025, giorno in cui si è imbarcata via aereo per l’Italia.
La giornalista era nella Repubblica islamica da ormai diverso tempo, utilizzando questa occasione (con tutti i permessi necessari) per dare voce alla popolazione che si trovava agli ultimi posti di una società, quella iraniana, teocratica, patriarcale ed estremamente lontana dal rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali per la vita dell’uomo.
D’altronde Cecilia lo sapeva che lì non sarebbe andata a vivere: in posti tali non esiste vita, ma si deve continuamente sopravvivere dimenticando la propria identità personale.
Con questo presupposto, perché l’ha fatto? Quale ragione l’ha spinta a voler rischiare così tanto?
Se ci pensiamo, di giornalisti che documentano fatti esteri rimanendo in Italia ce ne sono molti, ma Cecilia Sala spicca perché ci mette la faccia andando, rischiando, in Paesi come l’Iran.
Infatti, la sua volontà di dare una sempre più accurata descrizione della vita-non vita degli iraniani, facendo anche la scelta di non generalizzare a seconda di ciò che succede, ma basandosi sui racconti dei singoli e sui minimi dettagli che il confronto con una quotidianità “occidentale” che prima viveva le forniscono, fa capire quanto Cecilia non faccia la giornalista di mestiere: lei è giornalista perché riconosce nello stile di vita di colui che compie questa mansione la corretta visione del mondo, vivendolo.
D’altronde osservare passivamente lo scorrere inesorabile del tempo perde di significato se non entriamo completamente nella storia diventando noi stessi figli del nostro tempo che cercano in continuazione di rendere meno pericoloso il lupo che assale la tana, bensì le azioni di tutte queste persone sono come dei segnali che devono illuminare il mondo per renderlo consapevole dell’esistenza di strade e possibilità che possano rendere il nemico citato prima solamente un ricordo e un chiodo fisso per far sì che non si ripetano ancora notizie del genere.
Dall’Acqua Cloe
Micheloni Alessandro
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